Angiolo Aldinucci

SOTTO IL LOGGIATO

Sorprende Aldinucci in questa sua raccolta di versi. Non si inganni il lettore. La continuità con Bricciche, l’ultimo lavoro prima di questo, è apparente. Lì Aldinucci aveva raccontato di sé e degli altri con un senso pascolinano della misura, fatto di carezze lievi, di teneri registri linguistici, non di rado dolenti, sempre, però, espressi con garbo tenue, ma forte, retto da quelle sottili intelaiature che congiungono l’animo alla fede e che rendono il credente incrollabile anche sotto il grave e cogente carico della vita. Lì, ancora, la memoria, con singolare andamento bifronte, guardava indietro, e poi in avanti allungava il ricordo rendendolo presente ed eterno nell’intima miniatura di ogni essere esistente. Lì la brevità del tempo vissuto esaltava la perdurante essenza dell’eterno. Ora, queste liriche mutano di segno. L’incedere di Aldinucci si fa più arduo, perché più irto di ostacoli è il percorso, esitante perché conscio della permanente insidia dello smarrimento.
Aldinucci coniuga il dolore al dubbio e scopre la durezza aspra dell’angoscia. Non si tratta di una lacerazione esistenzialistica dell’assoluto che implica come unica certezza la vanità del tutto. Non è questo il punto. Lo sgomento di Aldinucci possiede origini diverse e nuove. Egli non muta parere. Resta saldo nelle sue radici, ma le fronde della sua coscienza si piegano come giunchi al vento. Piange Aldinucci. Le sue lacrime scavano profonde un volto sfigurato dal tempo, ma dallo sguardo ancora vigile, forse per poco ancora. Sono lacrime sofferte per sofferenza propria ed altrui, diafane per trasparenza indagatrice. In questa sua struggente raccolta, Aldinucci non è un poeta contemporaneo, ma il poeta che osserva la contemporaneità nel suo farsi temporale e nel suo disfarsi morale; non è un poeta che come un salice piange su se medesimo; è un poeta che piange per l’uomo perso e disperso. Corazzini è la referenza. Lo dice Aldinucci con chiarezza, ma il suo crepuscolarismo è assai differente, complesso fino allo sconcerto. Ed è qui che la poesia di Aldinucci coglie il suo vertice. Ed è qui che il lettore deve farsi più accorto. Non ci si lasci fuorviare dalla rapida linearità del verso. Nulla è dato per scontato. La descrizione dell’intimo non racconta più, mentre la riproduce, la vastità del macro che dà e toglie il respiro. Il sentimento dell’assoluto, in realtà, si fa di pietra dinanzi alla disumanizzazione del tempo presente, alla rarefazione della volontà e della libertà degli uomini tutti. Così, là dove il verso è pacato, proprio lì, dove il poeta si schermisce, il contrasto si rende più rude ed un grido lacerante si prepara a confermare l’instabilità della quiete; ciò avviene sempre ed invariabilmente, non per semplice ritualità stilistica, ma per convulsioni geometriche che stratificano i vari riscontri, tutti dolorosi, del progressivo, quanto inesorabile, degenerare dell’umano essere. Il canto di Aldinucci è sempre, verso contro verso, contrappuntato dal dramma dell’esistere. Eppure, è il caso di sottolinearlo, Aldinucci non cede al solipsismo. Egli non dispera del suo essere. Egli osserva impreparato ed attonito la caduta dell’umano. Ecco, dunque, che la poesia di Aldinucci non si atteggia soltanto ad arte, non è essa puramente estetica, ma è sostanzialmente etica, morale anzi, perché è dolente inchiesta non sullo smarrimento di un umano, ma del suo genere. Ed è proprio lo svelamento del declino dell’umanità che reca Aldinucci dinnanzi al senso autentico del tragico. I suoi versi si fanno asciutti, non consolano più, ritmano la sincope breve della dissolvenza, sono acri talvolta, convulsi, severi, eppure colmi d’amore, anche per chi non sa più amare. L’umanità ha mancato, si è negata, ha reso contorti quei legni storti che gli uomini per loro natura sono. Aldinucci si abbarbica al tronco della fede per non perderla e così la rinforza; non perde la fede, ma sente mancare la fiducia nella redenzione dell’umano genere: si chiede, allora, perché dovrebbe essere lui soltanto a salvarsi, vivere oltre, quando l’Umanità ha scelto di non vivere. In questo attanagliante dilemma, Aldinucci osserva il suo tramonto nell’ansia febbrile dell’incerto; eppure egli sa di essere salvo. I suoi versi dicono che sa amare e quanto ha amato. Non ce ne è uno che dica il contrario. E chi come lui sa amare non può che sentire dell’ultimo abbraccio il forte tremore del sublime.



Collana "Gli Emersi - Poesia "
pp.132 €15.00
ISBN 978-88-7680-363-5

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