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Maria Stellacci

Straniamento

Quando l’anima si racconta senza infingimenti
La raccolta di poesie - la prima che Maria Stellacci consegna a tutti ma, direi, in particolare “ai mendicanti di senso” - pone la questione su: «che cos’è la poesia?» e sulle ragioni più profonde della sua ispirazione.
Il critico letterario Franco Fortini sostiene che: «nel parlare comune, “poesia” significa due cose: per un verso è un discorso, o ragionamento, o comunicazione, in cui prevalgono elementi di ritmo, cadenze, ripetizioni, immagini che alterano i significati immediati delle parole e che gli conferiscono anche significati interiori. Poi c’è un altro significato: quando noi diciamo: “questa è poesia”, intendiamo dire qualcosa di elevato e di nobile, di rassicurante o di commovente o di rasserenante, di vivace, pungente, ecc. Una poesia breve, di versi molto ritmati, molto connessi da assonanze o da omofonie». Fa impressione leggere un passo di Goethe vecchio che affermava: “quando si hanno delle cose da dire si dicono in prosa; è quando non si ha nulla da dire che si scrivono poesie”. Questa affermazione è abbastanza sorprendente, considerando che chi dice queste cose aveva scritto una massa di poesie sterminata per tutta la sua vita. La poesia, ritengo, non vuole comandare, non vuole persuadere, non vuole indurre, non vuole dimostrare. Certamente la poesia si impone! Accade! Riesce ad imporsi con l’autorità dell’istituzione letteraria che essa evoca o rivive, con l’adempimento di un rituale, di un cerimoniale. In altre parole si può dire che anche la poesia più apparentemente privata chiama in vita una parte della coscienza collettiva, allude al valore non individuale del linguaggio, produce un senso.
Una fugace, ma attenta definizione di «poesia» ce la fornisce proprio un poeta, uno del mestiere: Paul Celan. Lo fa attraverso una poesia, versi che nel 1967 compone in una clinica psichiatrica nei pressi di Parigi. A noi rimane un foglietto straccio e vagante, come un fazzoletto nel vento:

«Canto d’emergenza di pensieri
nato da un sentimento,
che ha
dei nomi svegliati dal canto
non molti, spinoso,
così, inconfondibile,
dalla macchia di duro fogliame,
sporge con loro; a te
incontro,
spinoso,
vaga
un piccolo morire.»


Celan ci dice che la Poesia è un «canto di emergenza», un bisogno armonico che lega i pensieri e il sentimento a dei nomi, alle parole quindi, che affiorano come sull’acqua dal nostro ‘dentro’, dal pulsare del nostro corpo, nomi che vengono «svegliati» in una solitudine spinosa e dura, ma che infine si aprono alla condivisione; e la Poesia viene «a te», con le sue punte aspre, regalandoti un «piccolo morire». Essa è origine e perdita, è maga dell’elaborazione del lutto per l’abbandono dell’oggetto amato, è dunque consolazione.

Sono belle le poesie di Maria Stellacci.
Di quella bellezza consapevole che l’armonia-trasparenza con sé, con l’altro, con gli altri “costa” lacrime e sangue. Vivere dentro, vivere insieme, vedere oltre mi sembrano altre cifre ermeneutiche che l’autrice ci consegna perché diventino patrimonio comune. Condiviso!
La poetessa “vive insieme”: la coppia, la famiglia, le amicizie, il sociale. Ma non vuole infingimenti. Brama con ingordigia l’abbattimento di ogni muro. Di ogni maschera di pirandelliana memoria.
Vede oltre. È la sua speranza concreta. È il fine catartico.
L’autrice è un “uragano d’amore” capace di divenire “follia” se non incontra un “tu” dagli occhi limpidi, solari, rassicuranti. Un amore-luce il solo capace di far risorgere l’anima della poetessa!
Maria Stellacci con queste poesie “denuda” il suo cuore.
È coraggiosa perché sa che la “sola veritas” genera la libertà autentica.
Poesia autentica! Vita autentica!
Maria è “se stessa” fino in fondo. Se stessa così profondamente coinvolgendo il lettore “fino in fondo” ai suoi pensieri che evadono dalla rigorosa e schematica poetica tradizionale, priva di marcate pause, di significativi enjambement, di versi frantumati e ungarettiana quasi assenza di punteggiatura.
Le dico grazie per questa sua anima narrata senza ipocrisie. Senza menzogna, senza infingimenti.
«Ancora ho l’aurora/impigliata in ogni tempia» (Neruda). Con questa “aurora”, la poetessa Maria Stellacci tesse ragnatele di velluto in cui adagia i suoi affanni e cattura un silenzio e una quiete altrimenti lasciati andare via.
L’aurora di un nuovo giorno è iniziata per l’amica-autrice di questa raccolta, un’alba foriera di gioia. Di infinito amore, dove Dio non è l’assente, anzi è l’eterno presente, percepito e vissuto come “suprema compagnia” indissolubile.

Don Ciccio Savino
(Presidente Fondazione SS. Medici e Hospice A. Marena - Bitonto/Ba)