Collana "Gli Emersi - Poesia"
pp.64 €12,00
ISBN 978-88-7680-478-6

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Alessandro liburdi

MUTEVOLI MITI MUTI
LETTERE AL TEMPO CHE VA

I miti hanno da sempre fondato la cultura dei popoli, tentando di fornire un'interpretazione della realtà. Essi divengono, in questa raccolta di Alessandro Liburdi, “mutevoli” e “muti”, smarrendo insieme la qualità di fondamenti e la capacità di interpretare e dare senso. Eppure una voce in questi miti c'è. Non è sicura e stentorea come quella di chi, all'origine dei tempi, pur nel buio della scienza, confidava nella possibilità della parola di capire l'incomprensibile e di dire l'indicibile. Queste liriche ereditano appieno il senso di fallimento cui è approdata ormai da tempo la poesia: la loro voce dice questa ineluttabile inutilità e, al tempo stesso, la contraddice, nell'insopprimibile richiamo della ricerca di senso, connaturata nell'animo umano e presente da sempre in ogni poesia. Nel perenne transito del tempo, la poesia nutre l'illusione di fermare le lancette, essa è la “lettera al tempo che va”, poiché racchiude il senso negato dal caos di un mondo incomprensibile. Il poeta, in tutto questo è il “giullare da niente” che, pur nella certezza della sua “fervida inutilità”, non rinuncia ad “issarsi nella sua bassezza”, a raddrizzare le stanche ossa della sua “figura derelitta”, ma pur sempre “mistica”. L'io lirico non rinuncia a cercare un ricorrente tu, interlocutore cui affidare le pallide larve dei suoi sogni o cui rivolgere, a tratti, il suo severo monito, quale rappresentante, o testimone, di un'umanità degradata e massificata. Dal monito si passa, altre volte, all'ironia, che si appunta sui falsi trionfi della modernità. A volte l'ironia si fa sarcasmo nelle immagini di “allegria belante” del popolo o nel risuonare degli “spiccioli della dignità di latta”. Il confronto col mondo si fa spesso duro e sferzante quando dell'”aspro pavoneggiare del mondo” si disvela la vera natura di insignificante piccolezza, o quando l'io poetante si innalza sui “futili bagliori del mondo” o ancora quando un'antidannunziana pioggia dilaga impietosa sugli “scarti” e i “relitti” di un sordido mondo senza più speranza.
La cifra stilistica di queste liriche sembra essere l'ossimoro: dal “verde germogliare d'immondizia” alla “scrupolosa superficialità” dei pregiudizi, tutto racconta la dolorosa contraddizione della realtà. Ma la vera forza di queste poesie sta proprio nel saper evocare gli squallidi panorami urbani della modernità, attraverso una sapiente e audace commistione lessicale, in cui cemento torri e camini sembrano aver silenziosamente fagocitato valli colline e montagne. L'occhio scorre con sgomento sulle mutilazioni inflitte alla terra dall'uomo. La natura che qui sperimentiamo appare una mostruosità da laboratorio, aberrante ibrido di arredi urbani ed elementi naturali. Davanzali, marciapiedi, lampioni e ringhiere di plexiglas fanno da stridente pendant a biancospini e coccinelle, innocenti relitti di una natura sfrattata dall'uomo, con un che di epifanico e miracoloso. Il carducciano “ribollire dei tini” è messo a tacere dall'”andirivieni metallico” del traffico, ma la poesia ritrova il ritmo perduto delle stagioni nell'immobilità di pomeriggi d'estate, in paesaggi riarsi di montaliana memoria, o nella “morte festante” dell'autunno; essa si rimette ad ascoltare la natura, con pascoliana precisione di nomi e profonda indefinitezza di sensi riposti.
L'armonia con la natura appare quasi uno struggente ricordo, un possesso per sempre perduto, eppure sullo sfondo della desolazione urbana il precario ottimismo del poeta o il tormento dei suoi dubbi assumono un valore salvifico. Solo chi sa vedere la poesia di un cielo, di un sottobosco o di un cicalare di grilli, sembra dirci l'io poetante, può ancora sperare di veder baluginare nella natura scheletrita e rottamata il senso perduto delle cose. La natura è, significativamente, il “dominio (in)felice” che si può percorrere solo nei momenti di inattività, ridotta ad “accademico erbario”, eppure solo essa sa dispensare sazietà e serenità. L'io lirico del poeta fugge consapevolmente l'azione e rivendica, nonostante tutto, la necessità, anzi l'urgenza di “sognare ad occhi aperti”, finalmente.

Prof.ssa Nicolina Loffredi